CIRCOLARE N° 12
8 marzo 2001
NOI,
LE RAGAZZE DAI CAPELLI IN FIAMME
di Luca Franceschi
NEW YORK. Alla Triangle Factory nel 1911 morirono
in 146 tra le fiamme. Non c'erano idranti né uscite di sicurezza
al nono piano. I testimoni dall'edificio dirimpetto guardarono un
giovane issare una ragazza sul davanzale, sospingerla nel vuoto,
lontano dal muro, e lasciarla andare. E poi un'altra. Come se le
stesse aiutando a salire gli scalini di un tram, non quelli dell'eternità.
La terza, prima di cadere, gli mise le braccia attorno al collo
e lo baciò. Poi l'uomo la spinse nel vuoto con delicatezza,
e la lasciò. Subito dopo salì anche lui sul davanzale.
La giacca sventolava e l'aria gli gonfiava i pantaloni mentre volava
giù. "Quelle povere ragazze con i vestiti e i capelli
in fiamme. Ancora oggi, quando ci penso, mi salgono le lacrime.
Centoquarantasei vite, in mezz'ora. Non sarebbe mai dovuto accadere".Rose
Freedman ha ricordato fino all'ultimo. Fino all'ultimo ha pianto
la tragedia di cui era l'ultima sopravvissuta. È morta nel
sonno pochi giorni fa. Avrebbe compiuto 108 anni il 27 di questo
mese. Il 25 avrebbe ricordato il novantesimo anniversario dell'incendio
della fabbrica tessile di New York. E l'8 marzo, ricorrenza per
tanto tempo erroneamente associata a quella tragedia, Rose avrebbe
comunque rivestito con orgoglio il suo ruolo di simbolo.A sentirla
parlare, al telefono da Los Angeles, restavi affascinato dalla sua
lucidità. Conservava l'accento della Vienna asburgica in
cui aveva trascorso l'infanzia prima di trasferirsi oltreoceano
al seguito del padre, uomo d'affari ebreo. "Volevo sentirmi
americana, lavorare come tutti gli altri. Avevo 17 anni quando mi
presero alla Triangle Shirtwaist. Dovevo spingere bottoni dentro
una macchina. Mi pagavano sette dollari a settimana". La shirtwaist,
camicetta stretta in vita, era l'indumento simbolo della donna moderna
e dinamica del Novecento. Ma nella Manhattan industriale le condizioni
di lavoro femminile erano ferme al secolo precedente. Orari massacranti,
spazi da sardine, paghe decise di volta in volta dai capireparto.
La sicurezza, poi, era inesistente. Specie in fatto di incendi.
Le scale più alte dei vigili del fuoco arrivavano al sesto
piano quando la metà degli opifici si trovava al disopra
del settimo. Come la Triangle. "Al decimo piano, l'ultimo,
c'erano i funzionari.Al nono lavoravamo noi alle macchine. Fu all'ottavo
piano, quello dei tagliatori, che scoppiò l'incendio. Erano
quasi le cinque di sabato pomeriggio e mancava poco alla fine della
giornata. Il tempo di sentire il puzzo del fumo e scoppiò
il panico. Tra i ritagli di stoffa, il legno dei pavimenti e i nostri
vestiti, le fiamme si propagavano velocissime. Tutti gridavano e
correvano per mettersi in salvo, ma le porte di uscita erano sbarrate.
I padroni avevano paura che rubassimo, o che facessimo troppe pause,
così ci chiudevano dentro. Decine di ragazze si accalcarono
sulla scala antincendio che era troppo sottile e si spezzò.
Quelle poverette precipitarono giù". Pur di non bruciare
vive, molte operaie si buttarono dalle finestre. I pompieri tentavano
inutilmente di frenarne la corsa con i loro teli. Venivano giù
con una violenza tale da sfondare le lastre di vetro del marciapiede.Nel
giro di pochi minuti, Greene Street e Washington Place si riempirono
di mucchi di cadaveri. Quasi tutte ragazze tra i 15 e i 23 anni,
immigrate italiane o ebree dell'Est europeo. Bellotta Ignazia abbracciata
a Essie Bernstein, Salemi Sofia accanto a Yetta Rosenbaum. Rose,
intanto, aveva l'intuizione che l'avrebbero salvata. ""Cosa
fanno i capi?", mi chiesi. Mi coprii la testa con la gonna
e saltai tra le fiamme per arrivare alla scala che saliva al decimo
piano. Lo trovai deserto. Salii ancora e, uscita sul tetto, li vidi
tutti lì. Invece di scendere ad aprirci la porta, avevano
solo pensato a mettersi in salvo. I pompieri mi issarono sul tetto
del palazzo vicino e scesi in strada. Incontrai uno dei padroni.
Mi promise mari e monti se avessi raccontato al processo che le
porte erano aperte. Voleva che mentissi. Non gli risposi neppure".
Il processo si concluse con l'assoluzione.I proprietari della fabbrica,
che dall'assicurazione avevano ricevuto 445 dollari per ogni morto,
se la cavarono con un risarcimento di 75 dollari ai familiari di
ciascuna vittima. Ma lo sdegno e le proteste furono tali che, nel
giro di un paio d'anni, vennero emanate nuove leggi per migliorare
la sicurezza e le condizioni di lavoro. In questo senso l'incendio
della Triangle merita di essere ricordato in occasione della festa
della donna anche se non ne costituisce l'origine. La celebrazione,
infatti, era stata introdotta l'anno prima della tragedia all'Internazionale
socialista di Copenaghen, senza però fissarne la data. Che
è invece legata alla rivolta delle donne di Pietrogrado,
prologo della rivoluzione di febbraio del 1917: per il calendario
giuliano, allora vigente in Russia, era il 23 febbraio, ma nel resto
del mondo cadeva l'8 marzo. Per Rose l'incendio fu solo uno fra
tanti capitoli di una vita avventurosa. Rientrò a Vienna
durante la Grande guerra e salvò la vita a una spia russa.
Sposò un americano e aiutò due figli a guarire dalla
polio. Rimase vedova cinquantenne e, mentendo sull'età, tornò
a lavorare. Quando finalmente andò in pensione, i suoi capi
credevano avesse 65 anni: ne stava per compiere ottanta. Fino all'ultimo
si è concessa le sue passioni: la pittura, i viaggi, lo studio
delle lingue, le partite di basket dei Lakers, gli abiti eleganti
e i tacchi alti. Ma non ha mai dimenticato quel sabato pomeriggio.
Shirt, il componimento dedicato alla tragedia della Triangle dal
poeta contemporaneo Robert Pinsky, parte dall'osservazione di una
camicia dei giorni nostri, cucita in condizioni disumane in qualche
fabbrica asiatica. Quasi un secolo dopo, il problema rimane. Questo
Rose lo sapeva, e non si stancava di ripeterlo."Dovete avere
un sindacato", aveva gridato a 104 anni intervenendo a un'assemblea
di immigrati messicani. "Se non vi difendete da soli, chi vi
proteggerà? Guardate quello che successe a noi. I capi pensarono
solo a mettersi in salvo. Credevano che le loro vite valessero di
più, perché avevano soldi. Ma quanto vale un ricco,
se non ha cuore?". (8 marzo 2001)
Ricordando l'8 marzo, oltre l'8 marzo.
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